C’era un volta.. la fabbrica del ghiaccio di Budrio

19 dicembre, 2013

Sarà capitato anche a voi, durante i caldi pomeriggi estivi, gustando un ghiacciolo o una granita ghiacciata, di pensare: “ma una volta, quando non c’erano i frigoriferi e i freezer, dove prendevano il ghiaccio?”. La risposta è: nelle fabbriche del ghiaccio. Il ghiaccio ha una storia antica, densa di affascinanti racconti, che affollano le cronache di viaggiatori in Oriente, quando, fin dal Medioevo, avveniva il commercio estivo di neve e ghiaccio naturale, in città come Bisanzio, Tiro e Damasco.

Simbolo di benessere e bene voluttuario per eccellenza, durante l’età moderna il suo utilizzo si estende anche in Europa; poi, con l’incremento dell’industrializzazione, dal ghiaccio naturale si ha una rapida diffusione della produzione di ghiaccio artificiale. Così, da prodotto di lusso, si modifica in bene di prima necessità per la conservazione degli alimenti. Parallelamente, durante il colonialismo, diviene una vera e propria “moda”e la sua “fabbricazione” darà vita ad un fiorente mercato del quale i produttori americani saranno dominatori.

BUDRIO 1921
È stata una sorpresa scoprire che anche a Budrio è esistita una fabbrica del ghiaccio. Venne inaugurata da Leopoldo Poggi al civico 30 di via Benni, il 5 maggio 1921, quando ancora i frigoriferi non esistevano, dunque per l’igiene pubblica e per chi gestiva attività economiche di una certa rilevanza era un elemento indispensabile e per questo molto richiesto e utilizzato.
Fino ad allora, la fabbrica più vicina era quella di Bologna, in via Rimesse, ma la provincia era scoperta; per questo Leopoldo Poggi, con uno “sbuzzo” da imprenditore, motivato da una prole di otto figli, tutti maschi, si lanciò in questo ambizioso progetto.
Il primogenito si chiamava Mario, e a lui era stata assegnata la responsabilità dell“arzdòur”, cioè del contabile e amministratore dell’azienda, mentre il padre Leopoldo e altri tre fratelli, Enea, Giulio e Felice, erano addetti alle vendite e alla produzione, e in estate facevano persino i turni notturni. Alle consegne, a bordo di un furgoncino, provvedevano invece due operai, e con loro si concludeva il numero degli addetti alla fabbrica, considerato anche che gli altri fratelli erano ancora troppo piccoli per lavorare.
Leopoldo fece costruire l’edificio che, ancora oggi, seppur con qualche intervento di ristrutturazione per adibirlo ad abitazione, ha conservato la struttura originaria. Al primo piano, al quale si saliva attraverso due scalinate, sul davanti vi erano gli uffici e nel retro la fabbrica, mentre nel seminterrato la ghiacciaia, un magazzino isolato termicamente in cui si stivavano fino a circa 100 quintali di ghiaccio prodotto. In cima all’edificio c’era, e c’è tutt’ora, un ampio tetto terrazzato, un tempo arricchito da pennacchi decorativi sugli angoli.

50 QUINTALI DI GHIACCIO AL GIORNO RIGOROSAMENTE TRASPARENTE
Si lavorava a ciclo continuo e, con acqua potabile dell’acquedotto, si producevano circa 50 quintali di ghiaccio al giorno, più o meno due quintali all’ora, che avevano la forma di stecche tronco-piramidali lunghe circa un metro, da 25 kg l’una.
Caratteristica che rendeva il ghiaccio prodotto in fabbrica diverso da quello odierno era il leggero odore di ammoniaca, residuo delle fasi di lavorazione. Un odore inevitabile, perché per la produzione si utilizzavano stampi dentro un’enorme vasca dove circolava una soluzione salina raffreddata dai compressori che facevano funzionare serpentine, in cui scorreva un gas liquefatto, in genere ammoniaca.
Per questa operazione di raffreddamento si sfruttava l’acqua di due pozzi artesiani adiacenti all’edificio: insieme approvvigionavano l’impianto con 50-60 litri di acqua al minuto.
Si è portati a pensare che il ghiaccio sia ghiaccio e che quindi non possa avere particolari caratteristiche di qualità.
Non è così, perché la fabbrica dei Poggi produceva un ghiaccio cristallino e trasparente, che si otteneva facendo agitare l’acqua per mezzo di lame rotanti man mano che gelava negli stampi, per liberarla dalle bollicine d’aria in essa contenute, impedendo così di fargli assumere il tipico colore bianco opaco lattiginoso. Tant’è vero che quando capitava di rimanere senza e di doverlo comprare a Bologna, i clienti si lamentavano dicendo: bàn, cusél cal giazz, al né megga bòn da magnèr.
Gli stampi avanzavano in una sorta di catena di montaggio e, quando il ghiaccio era pronto, dopo averlo estratto, si riponevano via via gli stampi in fondo alla fila per riempirli nuovamente.
Quando la fabbrica aprì, le richieste cominciarono a giungere da tutta la provincia, fin da Sesto Imolese: inizialmente si servivano gli esercizi commerciali, in particolare le macellerie dove, in autunno, ancor più che d’estate, le carni temevano l’umidità. Per conservare i quarti si utilizzavano ampi armadi coibentati con uno strato di sughero, dotati di una cella che conteneva fino a due o tre quintali di ghiaccio, che si sostituiva due volte la settimana.
Poi c’erano i bar e i chioschi, come quello della Corinna in Piazza Matteotti, che lo utilizzavano per tenere in fresco le bibite e per produrre le granite, tanto amate dai bambini.
Dopo la seconda guerra mondiale, la fabbrica cominciò a servire il frigorifero di Molinella che diede il via all’esportazione di frutta all’estero e quindi il trasporto di ghiaccio avveniva presso la stazione dei treni caricando i vagoni merci, che contenevano fino 20 quintali di ghiaccio.

AL GIAZAREN
Anche i privati cominciarono ad acquistarlo, seppure in piccole quantità, che un addetto periodicamente andava a vendere con un furgoncino a pedali carico di stecche. Secondo le richieste, rompeva pezzi di diversa grandezza che la clientela portava a casa in sacchi di tela, per stivarlo nei cosiddetti “giazarén”, mobiletti della grandezza di un comodino foderati all’interno di sughero e zinco e dotati di due scomparti: in uno si metteva il cibo e nell’altro mezza stecca di ghiaccio.
La fabbrica non era però sufficiente al sostentamento di tutti i Poggi e Leopoldo, da padre di famiglia previdente qual era, ancor prima della fabbrica del ghiaccio, sempre in via Benni, aveva aperto una trattoria con annessa “osteria dell’Angelo”, gestita dalla moglie Matilde, che faceva degli ottimi tortellini e le famose pulpàtt ed chèran frôsta. Ma la sua intraprendenza andò ancora oltre, spaziando ad attività imprenditoriali diversificate: comprò quattro trebbiatrici con pressatrici azionate da una locomobile a vapore per lavori conto-terzisti e aprì un’officina meccanica, che ha proseguito l’attività fino ai giorni nostri.
Poggi pensò davvero a tutto, non solo al lavoro, ma persino all’intrattenimento teatrale che si svolgeva nel cortile dell’officina meccanica, la cosiddetta “arena Poggi”.
A recitare arrivavano compagnie di teatranti della zona che, d’estate, si divertivano a recitare commedie brillanti e dialettali, allietando le serate dei budriesi.

UN “CAMBIAMENTO DI STATO”
Negli anni del boom, l’Italia scopre gli elettrodomestici, primo fra tutti il frigo. Da questo momento le fabbriche del ghiaccio cominciarono a chiudere i battenti e questo avvenne nel 1960 anche per la fabbrica dei Poggi.
I fratelli si divisero nelle diverse attività famigliari e Leopoldo Poggi Junior, figlio di Mario, nipote del fondatore e testimone di questa storia, con un semplice “cambiamento di stato”, da quello solido a quello liquido, decise di passare dalla vendita del ghiaccio alla vendita di acque minerali e bevande.

Maurizia Martelli
Associazione Senza Confini*


* L’associazione Senza Confini opera per la divulgazione e la promozione degli aspetti più importanti, complessi, sconosciuti e piacevoli della vita e del territorio di Budrio.
Periodicamente pubblica il notiziario ‘Budrio Magazine – Senza Confini’.
Il pezzo di Maurizia Martelli è tratto dal nuovo numero, in uscita sabato e domenica nelle edicole del territorio, e nei principali esercizi commerciali di Budrio.
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