L’importanza degli esami del sangue è ormai nota. Attraverso periodiche analisi ematiche è possibile mantenere sotto controllo buona parte delle funzioni vitali dell’organismo. Ad ognuno di noi sarà capitato o capiterà di doversi sottoporre ad un prelievo di sangue, scrutando poi, con un po’ di apprensione, il referto costituito da una lunga lista di valori. Tra le sostanze elencate, una recita un ruolo insostituibile: il ferro, che condiziona enormemente la nostra salute. Sfogliando le pagine degli esami raramente ci si sofferma a riflettere su chi abbia scoperto la presenza di quegli elementi all’interno del sangue. Per quanto riguarda il ferro, il debito di gratitudine deve essere rivolto ad un budriese: Vincenzo Antonio Menghini, che tra il 1746 e il 1747 rivoluzionò la medicina.
L’IMPORTANZA DEL FERRO
Le scoperte di Menghini sul ferro hanno assunto maggiore rilievo nel corso dei secoli. Oggi siamo a conoscenza dei vari ruoli ricoperti dal prezioso metallo nel nostro corpo. Il ferro è necessario: per il trasporto dell’ossigeno nel sangue, per tener depositato l’ossigeno nei muscoli, per l’attività respiratoria cellulare, per la replicazione cellulare, per costruire la struttura di tessuti, organi ed anche per la crescita dei capelli, strettamente correlata alla quantità di ossigeno presente nell’organismo.
La nostra vita è connessa ai compiti assolti dal ferro, che se dovesse essere carente scatenerebbe numerose patologie, tra cui diverse forme di anemia, che un tempo portavano molte persone alla morte. L’eccesso di ferro può rivelarsi tossico, precludendo il funzionamento dei vari organi. Ai tempi in cui Menghini ha svolto i propri studi, in particolare le donne in gravidanza erano soggette a scompensi nefasti per loro stesse e per i bambini che portavano in grembo. Grazie agli esperimenti dello scienziato budriese ha preso slancio una serie di indagini, che sono giunte fino ad oggi, permettendo al genere umano di limitare e prevenire molteplici malattie.
LA VITA A BUDRIO
Vincenzo Antonio Menghini nasce a Budrio il 15 febbraio 1704 da Domenico e Bartolomea Benelli. La casa della famiglia è adiacente a quella dei Medosi, che all’epoca abitavano nell’odierna via Bissolati, quindi è possibile presumere che la dimora natale di Vincenzo fosse posta tra le attuali vie Bissolati, Benedetti e Inzaghi. Le condizioni economiche dei Menghini, quasi certamente appartenenti alla borghesia mercantile, sono buone, ma non consentono eccessi. La famiglia è composta da altri tre figli: Vincenzo Maria, Caterina e Maria Orsola, che sposerà un grande medico budriese: Giacinto Vogli (1697-1762) membro dell’Accademia delle Scienze di Bologna dal 1718 e Accademico Benedettino dal 1745. Vincenzo compie i primi studi a Budrio, poi il padre, a cui non era sfuggita la brillantezza intellettuale del figlio, decide di iscriverlo al Collegio Poeti di Bologna. Questo istituto – creato alla morte, avvenuta nel 1551, del Capitano Teodosio Poeti, che per lascito testamentario scelse di convertire la propria abitazione in un collegio capace di aiutare gli studenti appassionati delle arti liberali – svolge un ruolo fondamentale nel percorso formativo di Menghini, che fino all’inizio dell’Università resterà nel collegio, ricevendo anche notevoli aiuti economici nei primi anni universitari.
MENGHINI ALL’ACCADEMIA DELLE SCIENZE
Il 18 giugno 1726 Vincenzo consegue la Laurea in Filosofia e Medicina all’Università di Bologna ed inizia l’attività di medico e ricercatore. Menghini – membro dell’Accademia delle Scienze già dal 30 giugno 1725 – si impegna come medico negli ospedali, approfondisce le indagini sui cadaveri, propone studi sui feti e nel 1729 lo ritroviamo a Medicina (BO) per debellare un’epidemia. Nello stesso anno Vincenzo si distingue per una serie di ricerche sul morbo diffuso tra i bovini delle campagne ferraresi e bolognesi, ribadendo la sua grande sensibilità verso i problemi contingenti.
Attorno al 1730 il budriese sposa Diamante Scarabelli e va ad abitare presso dei parenti della consorte e nel 1736 avvia la propria carriera universitaria come docente di Logica. L’anno seguente Menghini ottiene anche la cattedra di Medicina Teorica, a cui subentrerà quella di Medicina Pratica, che lo scienziato manterrà fino alla morte.
UNA VITA PER LO STUDIO
Vincenzo si destreggia tra numerosi studi e lezioni universitarie. La grande attenzione verso le giovani generazioni si impone come una delle priorità, che portano Menghini ad istituire una scuola nella propria casa. In breve tempo molti studenti scelgono di seguire gli insegnamenti del medico budriese, sempre pronto a mettere a disposizione le sue conoscenze. Vincenzo cambia varie abitazioni e nel corso degli anni ’40 del 1700 nascono le due figlie Anna e Maria. Il mantenimento della famiglia è fondamentale per lo scienziato, che investe i non enormi guadagni per il sostentamento della moglie e delle due bambine. Menghini non ha la possibilità di dedicarsi con serenità agli amati studi fino al 1745, quando Papa Benedetto XIV (Prospero Lorenzo Lambertini) istituisce l’ordine degli Accademici, definiti Benedettini in suo onore, che rappresentano la prima classe dei membri dell’Accademia delle Scienze. I ventiquattro Benedettini vengono scelti tra i migliori esponenti dell’Accademia e possono usufruire di un sussidio, attribuito con lo scopo di favorire le loro ricerche, contribuendo in maniera decisiva ad alleggerire le notevoli spese necessarie agli esperimenti scientifici. Menghini è nominato Accademico Benedettino e può finalmente dare libero corso alle indagini che aveva in animo da tempo. Dopo alcune ricerche sui calcoli renali, sulla composizione dell’urina, sull’idropisia e sull’utilizzo della canfora nelle cure mediche, Vincenzo si concentra su varie sperimentazioni che riguardano la presenza del ferro nel sangue.
LE RICERCHE AI TEMPI DI MENGHINI
Fin dal 1600 sono state condotte ricerche cliniche sul sangue, anche se inizialmente con scarsi risultati. All’inizio del 1700 si assiste ad una intensificazione degli studi sulla composizione sanguigna, con specifico interesse per la presenza del ferro. Giuseppe Badia (1695-1782) è molto probabilmente il primo uomo a riscontrare l’esistenza di particelle ferrose nel sangue attraverso l’attenta analisi dell’urina, mescolata a sangue, di una isterica. Le conclusioni tratte da Badia appaiono dense di spunti di riflessione, ma prive di una stesura sistematica.
Un altro pioniere delle indagini ematologiche è Domenico Gusmano Maria Galeazzi (1686-1775), membro dell’Accademia delle Scienze di Bologna e medico molto attento. Galeazzi lega le proprie ricerche soprattutto alle ghiandole tubolari dell’intestino (che compaiono spesso indicate con il suo nome), ma si distingue per la vastità dei suoi studi, che nel 1714 lo portano all’Académie des Sciences di Parigi dove assiste alle discussioni sull’origine del ferro, ritrovato nelle ceneri dei vegetali. Gli animatori di questi dibattiti sono due scienziati di prima grandezza: Louis Lémery (1677-1743) ed Etienne François Geoffroy (1672-1731). Quest’ultimo ritiene che il ferro sia prodotto dalla combustione e si formerebbe grazie alla combinazione di altre sostanze. Lémery sostiene invece che le particelle di ferro siano preesistenti e soltanto rivelate dal processo di surriscaldamento. Al suo ritorno in Italia, Galeazzi inizia delle ricerche personali, condotte mediante il confronto delle ceneri di piante presenti nei monti del bresciano (terreno ricco di ferro) con quelle di altre situate nella provincia di Bologna. Le conclusioni degli esperimenti permettono allo studioso di affermare con forza che la presenza del ferro nelle piante deve essere posta come un dato di fatto a prescindere da qualsiasi tipo di combustione. Infatti le ceneri dei vegetali bresciani erano risultate più ricche di ferro rispetto a quelle bolognesi. Galeazzi continua le proprie ricerche, concentrandosi sulle ceneri degli animali e del sangue umano, che sottopone all’attrazione del coltello magnetico con cui riscontra l’esistenza dell’ormai famoso metallo. Gli studi dello scienziato italiano vengono pubblicati nei Commentarii dell’Accademia delle Scienze di Bologna ed influiscono in maniera diretta su Vincenzo Menghini, che dopo alcuni anni inizierà la propria avventura scientifica.
IL CONTRIBUTO DELLO SCIENZIATO DI BUDRIO
Gli esperimenti del medico budriese sono riportati in due opere fondamentali, pubblicate nel Tomo II dei Commentarii dell’Accademia delle Scienze (De Bononiensi Scientiarum et Artium Instituto atque Academia Commentarii). Nel 1746 Menghini scrive «De ferrearum particularum sede in sanguine» in cui descrive le esperienze che lo hanno portato ad indagare la presenza del ferro nel sangue e nelle parti solide del corpo. Gli studi di Vincenzo partono dall’estrazione di cinque once di sangue dalla vena femorale di un cane. Il liquido viene sottoposto a calcinazione – cioè portato ad una determinata temperatura al fine di eliminare acqua e parti volatili, ottenendo un residuo fisso – in un vaso di terracotta. Il risultato è una polvere a cui è avvicinata la lama di un coltello magnetizzato: alcune particelle si attaccano immediatamente alla calamita e vengono definite di «primo genere», mentre altre necessitano di un ulteriore riduzione di distanza rispetto alla lama e sono ribattezzate di «secondo genere» perché sicuramente miste a sostanze eterogenee. Menghini ripete gli esperimenti con sangue di vitelli, cavalli, maiali ed altri animali, fino a giungere alle analisi di quello umano. Lo scienziato rinviene sempre particelle di ferro, anche se in proporzioni diverse a seconda dell’essere vivente analizzato. Il budriese, grazie ad attente osservazioni compiute sui cadaveri, comprende che le parti solide del corpo umano contengono ferro in rapporto alla quantità di sangue presente in esse. Vincenzo si spinge oltre, riuscendo a dividere il sangue in tre componenti: sierosa, fibrosa e globulare. L’aiuto del chimico e farmacista Domenico Campadelli risulta decisivo, infatti attraverso un complesso sistema di distillazione, evaporazione, utilizzo di mercurio, calce viva, soluzioni saline e sulfuree si verifica la suddivisione delle tre parti, che sono poi analizzate al microscopio, donato dall’amico Ercole Lelli. Queste ricerche permettono a Menghini di dimostrare che il ferro è contenuto soprattutto nella parte globulare, composta dai globuli rossi, di cui sono studiate quantità, grandezza e forma nei vari animali e nell’uomo.
L’AMORE PER LA SCIENZA
Vincenzo appare soddisfatto dei risultati ottenuti, però il profondo amore per la conoscenza lo accompagna verso nuove frontiere. Lo scienziato si circonda di tre collaboratori straordinari: Fabio Vignaferri, Jacopo Conti e l’immancabile Ercole Lelli. Menghini, nell’opera «De ferrearum particularum progressu in sanguinem» (1747) si propone di verificare se il ferro somministrato agli animali e all’uomo venga assorbito ed entri in circolo, oppure se si arresti nello stomaco e nell’intestino. Nella Iª metà del ‘700 erano utilizzati, a scopo terapeutico, numerosi preparati contenenti ferro, ma nessuno aveva ancora dimostrato quale fosse il meccanismo di azione e le modalità di assorbimento. Vincenzo somministra per quaranta giorni sei diverse soluzioni di ferro ad animali e ad uomini, in dosi proporzionali alla grandezza del corpo. La prima conclusione degli esperimenti consente a Menghini di verificare un aumento della quantità di ferro nel sangue a prescindere dal preparato somministrato e dal soggetto dello studio. L’immediata conseguenza è la consapevolezza del fatto che il ferro introdotto per via orale non si arresta nel tubo digerente, ma viene assorbito e trasportato per il corpo. Vincenzo riesce ad esplorare in maniera approfondita la struttura dei vasi sanguigni che si dipartono dall’intestino, seguendo così il percorso del ferro nell’organismo. Il budriese non rinuncia ad una attenta analisi delle fonti utilizzate per reintegrare il ferro perso nel tempo. A questo punto l’Accademico Benedettino indaga l’apporto offerto dagli alimenti e dall’aria. Attraverso delle analisi sui vegetali, caratterizzati da una maggiore presenza di ferro nelle loro parti esterne rispetto a quelle interne, Menghini ricostruisce, per gli animali e l’uomo, il passaggio delle particelle presenti nell’atmosfera mediante la respirazione polmonare e i pori cutanei.
La rilevanza delle scoperte dello scienziato nato a Budrio non viene compresa immediatamente. Alcuni medici stranieri gli chiedono di scrivere dei testi per diffondere le sue innovazioni e Vincenzo non si sottrae ad ogni possibile occasione di ampliamento delle conoscenze del cosmo scientifico. Menghini, Presidente dell’Accademia delle Scienze nel 1748, prosegue le proprie ricerche con assiduità, dedicando molte energie all’insegnamento universitario e privato. L’amore per la scienza lo accompagna fino al giorno della morte per apoplessia, avvenuta il 27 gennaio 1759, che lo coglie precocemente, privandoci di ulteriori studi che avrebbero certamente accompagnato la medicina verso nuovi confini da esplorare con estrema meticolosità.
Leonardo Arrighi