Ultimi giorni di guerra a Budrio

9 dicembre, 2014

Le notti nei rifugi, gli approvvigionamenti alimentari, i salti mortali per sopravvivere. Il raccolto degli ultimi giorni di guerra di Gioconda Canè, nel numero di Budrio Magazine Senza Confini, in questi giorni distribuito negli esercizi commerciali di Budrio.

ULTIMI GIORNI DI GUERRA
Si può fare l’abitudine al rombo dei bombardieri? Ci verrebbe da dire di no. Eppure noi ci eravamo abituati, perché sapevamo che andavano a scaricare a sud del paese, sui capannoni militari; però il pomeriggio del 14 aprile la cosa cambiò. Furono bombe di cannone, che arrivavano da est. Sapevamo già che la guerra si stava avvicinando, e quello fu il segnale definitivo per noi.

Che fare? Avevamo mio fratello, di sei anni, a letto febbricitante per uno dei suoi soliti attacchi di tonsillite ed anche la nonna materna, che già da diversi anni veniva a trascorrere l’inverno da noi, perché diceva che qui stava più calda che a casa sua, a Riccardina. Decidemmo di andare nel rifugio dell’ospedale, almeno lì c’era il medico. Prendemmo le gallette, che la mamma aveva fatto qualche tempo prima, ed andammo a chiedere ospitalità. Ci misero nel sotterraneo dalla parte ovest, verso Piazza San Domenico e ci fecero accomodare la mamma ed io su un divanetto di vimini, la nonna in una poltroncina della stessa fattura, forse rubati in qualche stabilimento termale. Il bambino stava sulle nostre ginocchia, e per fortuna in qualche giorno guarì.

Ma le bombe continuavano ad arrivare e colpirono ad est l’ospedale, nonostante fosse ben evidente la croce rossa, che lo distingueva dagli altri edifici. Una notte una bomba scoppiata nel guardaroba causò un incendio, che andò allargandosi rapidamente. Allora gli uomini, là nel rifugio, fecero il passamano con secchi pieni d’acqua, che erano stati riempiti con l’acqua della fontana del cortiletto posto a nord-ovest,e che dovevano arrivare, attraversando i corridoi, a sud. L’impresa fu faticosa, ma riuscì. I ricoverati del primo e secondo piano dell’ala ad est furono trasferiti sui loro letti al piano rialzato, dove ogni tanto arrivava dal paese qualche altro ospite, in cerca di rifugio. Passammo così cinque giorni.

La mattina del 19 aprile, alle 9, mentre il dottor Pulvino e l’impiegato Carlo Felicori erano fermi nell’ingresso, videro arrivare da nord, di corsa, lungo il corridoio , l’infermiere Marzocchi, che urlava: “Ayé i Inglîs, ayé i Inglîs! “E il dottore, sorpreso: “Avrà bevuto”… in quei giorni gli infermieri stavano in servizio giorno e notte, e si sostenevano come potevano. “A sôn sicur!! I ân l’elmâtt fât a cadén e mé ayò vêst in cl’êtra guèra!“ Infatti ecco dal cortiletto comparire tre ufficiali, due neozelandesi e uno italiano. Si erano arrampicati sulle mura del paese vicino alla torre e lì avevano trovato l’ingresso all’ospedale. Chiesero subito se in paese ci fossero ancora dei tedeschi, e avuta la risposta negativa, si misero immediatamente in comunicazione per mezzo di una radiolina tascabile con il loro comando. Dissero, poi, che avevano passato rapidamente la notizia, perché c’era già pronta una formazione di aerei, che avrebbero dovuto bombardare il paese. Così Budrio fu salva, e noi dal rifugio sentimmo i bombardieri, che scaricarono il loro fardello sull’argine dell’Idice, mentre sul balcone del comune veniva esposta la bandiera inglese.

Avevamo tanta voglia di uscire dal rifugio, ma non era prudente, perché i tedeschi non si decidevano a ritirarsi e ancora bombardavano da ovest. Passammo la notte nel rifugio del palazzo dalla Noce, accolti da nostri amici. Il giorno dopo, finalmente, tornammo a casa, e la prima sorpresa furono i pulcini di una chioccia, che la mamma aveva lasciato a covare nel sottoscala. I nostri vicini, ospitati nella nostra cantina, li avevano portati con sé e nutriti. Salimmo nelle camere da letto, e qui ci fu la sorpresa: una era senza tetto e nella mia una bomba, che aveva bucato il soffitto, era entrata in un cassetto del mio comò, arrotolandosi intorno alle calze.

Nei giorni precedenti avevamo visto lungo le strade passare un esercito in ritirata con carretti rubati ai contadini e trainati da poveri cavalli malnutriti, adesso rimanemmo meravigliati al passaggio di mezzi meccanici bellissimi con pneumatici robustissimi.
Tutti i cittadini cercarono di riprendere posto nelle loro case, ma dove le bombe avevano colpito dovettero adattarsi a soluzioni precarie. A questo punto bisognava riprendere la vita normale, cosa molto difficile per la scarsità di viveri, di indumenti, di tutto quello che serviva per tale scopo. Per rifornirci del necessario, visto che con la carta annonaria non si trovava più niente, dovevamo ricorrere al mercato nero, nato durante la guerra. In tal modo ci furono persone che si arricchirono, mentre la maggioranza finì nella miseria.

Fu difficile trovare farina, carne, olio, indumenti e assolutamente impossibile caffè e gli altri generi d’importazione.
1-Farina. Trovato ogni tanto qualche chilo di grano, lo macinavamo con il macinino da caffè.
2-Caffè. Sostituito dall’orzo, e per migliorarne colore e sapore, mettevamo in aggiunta un prodotto chiamato “Olandese”.
3-Olio. Anche l’olio non si trovava ed era sostituito dal burro o dallo strutto. Per fare il burro compravamo ogni giorno due litri di latte da un contadino, lo facevamo bollire, poi lo mettevamo in una terrina e la mattina seguente, quando si era raffreddato, aveva formato la panna. Con una certa quantità di panna, raccolta per diversi giorni, e con l’aiuto di un frullino di legno facevamo il burro. Lo strutto l’aveva solo chi poteva allevare e macellare il maiale. Arrivammo a condire l’insalata con lo strutto liquefatto, ma per evitare che si rapprendesse rapidamente, riscaldavamo il piatto.
4-Carne. Qualche pezzo di carne si trovava al mercato nero.
5-Zucchero. Dello zucchero avevamo persino dimenticato il sapore.

Per il guardaroba, la mamma comperò delle matasse di filato di canapa e d’accordo con la zia Gemma, che sapeva tessere, montò un telaio in cucina.
Così fecero dei torselli di tela di diversa grossezza, che servì per fare grembiali, tovaglie, tovaglioli, lenzuola e federe. Anche la lana non si trovava più. Io comperai della lana grezza da un pastore, la lavai, la tinsi con un colorante comprato dal droghiere. Quando la lana era asciutta, prima bisognava fare un primo trattamento con le mani, poi si filava. Io avevo un “filarino” che era stato comperato dal tornitore Bolelli. E con questa mi misi a sferruzzare, per preparare maglie per l’inverno.

A Budrio, vicino alla nostra casa, i Polacchi avevano allestito la loro cucina, rifornita con abbondanza dagli Americani: i cucinieri vendevano di nascosto barattoli di margarina, di latte e di uova in polvere.
Mio fratello, che era un bambino e gironzolava per il cortile, spesso pranzava con i Polacchi, che gli regalavano anche qualcosa da portare a casa. Lui era goloso delle loro polpette di carne macinata.
Poi anche i Polacchi se ne andarono, e noi rimanemmo con la nostra miseria a fare “salti mortali” per sopravvivere. Io avevo conseguito il diploma di maestra nel ’40, ma lavoro nelle scuole non si trovava, tranne qualche supplenza di breve durata. Il tempo passava, ma il ritmo della vita non cambiava. Poi finalmente fu bandito il concorso ai posti di ruolo nella scuola elementare. Io mi preparai con impegno, sostenni l’esame e fui promossa.
Ebbi la nomina a Vedrana, ma la legge imponeva che dove c’erano 5 posti, uno fosse assegnato a un maschio. Le maestre dovettero chiedere il trasferimento, naturalmente fu spostata quella che aveva il punteggio più basso, la più giovane: io.
Ebbi il posto a Bagnarola, dove mi recavo tutte le mattine, con la pioggia o la neve, prima in bicicletta poi con la Vespa, e dove rimasi per sedici anni, prima di raggiungere il punteggio per avere la sede a Budrio.

Gioconda Canè
Associazione Senza Confini Budrio
Articolo pubblicato sull’ultimo numero di Budrio Magazine Senza Confini.

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