Il volume di Claudio Tugnoli, Gli anni riapparsi in umiltà di gloria. Poesie in dialetto budriese (2012), è stato preso in carico dall’editore Manni di Lecce, che ha in catalogo collane di poesia, prosa, saggistica letteraria, sociologia. Manni, da vero editore, ha deciso di pubblicarlo senza contributi di enti pubblici. Il volume è stato presentato dall’autore Claudio Tugnoli (dal 1977 residente in Trentino) e da Tiziano Casella presso la Pro Loco di Mezzolara il 15 marzo 2013.
Dopo alcune considerazioni di carattere generale di Tugnoli sulla pubblicazione del volume e sull’importanza di mantenere vivo l’uso del dialetto e di riconoscergli la dignità linguistica a pieno titolo, Casella ha letto alcune poesie nella versione dialettale con l’efficacia espressiva del parlante nativo.
Il titolo del volume è tratto da Solo se ombra, raccolta di poesie di Gaetano Arcangeli (prima edizione Mondadori 1954). La poesia di Arcangeli congiunge l’aurora del sacro all’alba dell’infanzia. Il poeta rievoca la sua prima infanzia con la vertigine degli “angeli ieratici assisi sulle chiese”, sullo sfondo di un sole a picco che sembra essersi dimenticato di tramontare. E poi le luci e gli “ori delle nicchie e delle aureole”, per finire con “un gregoriano angelico” che il poeta “riascolta / chierico di una tal messa servita / al bianco Dio che sta nella memoria”.
Poesie in dialetto budriese come espressione d’affetto verso la cultura popolare e la lingua d’uso dell’infanzia dell’autore. Il testo a fronte con traduzione non risponde solo all’esigenza di una più diffusa comprensione del testo dialettale, ma è imposto soprattutto dal dialogo che l’autore ha instaurato tra presente e passato, tra il se stesso di ora e il se stesso di allora. Un viaggio nella memoria per far rivivere e restituire significato alle forme, agli idiomi, alle consuetudini dei suoi cari estinti e della sua terra. Rivedere la propria infanzia è possibile solo con occhi diversi da quelli del primo stupore, del bimbo che va incontro al mondo; ma è anche possibile dare voce a pensieri impliciti o inconsci, che il bambino di allora non sapeva di meditare, non sapeva di essere capace di accogliere. L’atto di ricordare esperienze del passato non sarebbe possibile senza il movimento inverso, una specie di ricordo del futuro: chi scrive immagina che il bambino presentisse gli sviluppi formali e lessicali che, nel corso della sua vita, avrebbero dato voce ai suoi pensieri.
Rievocare la propria infanzia implica dunque un doppio movimento, in cui l’adulto, fatto esperto delle cose del mondo, compie un viaggio a ritroso nel tempo (trasferimento del presente nel passato), e sorprende il bambino già proteso a “ricordare” il futuro che gli va incontro nella veste dell’adulto.
Il risultato non è la mera riproduzione del passato, e neppure l’interpretazione soggettiva di un adulto che volesse rivestire contenuti infantili con significati che essi, allora, non potevano avere. Se così fosse si tratterebbe di un’operazione arbitraria e l’infanzia non sarebbe ritrovata, ma rimarrebbe ignorata e sepolta. Se invece si stabilisce la convergenza tra prefigurazione e rievocazione, tra memoria del futuro e memoria del passato, allora il tempo diventa circolare, inizio e fine si danno la mano. Le fratture e le discontinuità che appaiono a un primo sguardo tra passato e presente, tra quel che eravamo e quel che siamo diventati, rivelano al contrario segrete convergenze, inattese corrispondenze, nel segno di una sostanziale continuità della nostra vita interiore. Non esiste quindi un’identità statica e immodificabile, ma neppure una successione di stati psichici disconnessi, ciascuno dei quali debba corrispondere a un io diverso da tutti gli altri precedenti e successivi – una sorta di caleidoscopio acefalo. Un io originario che non si smarrisce nei meandri delle esperienze con il mondo che via via si susseguono, ma che si rivela in esse e si forma e si delinea e diventa se stesso e si conosce infine. Un io che, pur modificandosi continuamente, non diventa estraneo a se stesso, ma si riconosce ogni volta come quel se stesso che è da sempre.
L’identità delle persone, così come quella di una comunità che non cessa mai di evolversi, è fatta di cerchi concentrici. Nel nostro caso il primo cerchio è il dialetto budriese; il secondo cerchio è la lingua nazionale, l’italiano, di cui si dovrebbero tenere corsi liberi aperti soprattutto agli stranieri, dal momento che la nostra memoria storica è in quella lingua e Budrio, fino a prova contraria, è in Italia; il terzo cerchio sono le lingue europee (a Budrio si dovranno tenere corsi di lingue europee, e non solo d’inglese); il quarto cerchio è il mondo extraeuropeo: si tengano dunque corsi di arabo, ma anche di altre lingue, partendo non dal numero di immigrati di una certa lingua presenti sul territorio, ma dal censimento dei cittadini residenti interessati a partecipare ai corsi di qualsiasi lingua straniera. Esiste comunque una gerarchia anche nella “cipolla” dell’identità. Mantenere viva la memoria e, nei limiti del possibile, l’uso del dialetto locale è un contributo che ciascuno può dare per conservare la tradizione e rafforzare il senso di appartenenza e identità della comunità budriese. Il rafforzamento dell’identità è la precondizione per misurarsi con l’alterità in tutte le sue forme. L’esperienza della diversità è fondamentale e ineludibile, ma il processo di trasformazione sociale, tecnologico e urbanistico nel corso del tempo deve poter contare sulla memoria e sull’identità, sul passato e sulla tradizione. Per governare il futuro la conoscenza del passato è indispensabile, a meno di non voler assimilare gli esseri umani ad automi programmati o a droni telecomandati.
Gli anni riapparsi in umiltà di gloria. Poesie in dialetto budriese, Prefazione di Cesare Poppi, Manni editore, Lecce 2012, euro 13,00.
Claudio Tugnoli