Il gassosaio era una delle professioni più frequenti all’inizio del Novecento, perché la gassosa, o “gazzosa”, era una delle poche bibite esistenti, a parte l’aranciata e, molto più tardi, il chinotto e alcune altre. Si trattava di un lavoro forse un po’ più “effervescente”, ma non meno impegnativo e faticoso di tanti altri. Angelo Cesari, budriese, classe 1891, scelse questa attività, anziché un’altra, in modo del tutto casuale, come quasi sempre accade quando il mestiere non lo si eredita dalla famiglia.
Chiamato alla leva nel 1911 nella guerra di Libia, fu poi arruolato nella prima guerra mondiale. Ritornato a Budrio nel 1919, poco dopo si sposò e con l’indispensabile complicità e collaborazione della moglie Venusta prese in gestione l’osteria della “Palazzina”. Allora le osterie, con o senza servizio di cucina, erano tante, e si può dire che ogni strada ne contasse almeno una; inoltre, salvo alcune eccezioni, non avevano nomi di fantasia come oggi, ma erano luoghi della loro identità, e quindi a volte portavano il nome o il cognome del proprietario o tutt’al più del luogo in cui erano collocate. Con l’osteria si viveva dignitosamente, ma nel DNA di Angelo e di una delle sue tre sorelle, Attilia, era custodito il gene dell’imprenditorialità. Fu così che proprio ad Attilia, che per lavoro si era trasferita a San Giovanni in Persiceto, dove – guarda caso – c’era un gassosaio, venne in mente di convincere Angelo ad andare proprio lì ad apprendere l’arte del mestiere… Così egli seguì l’incitamento della sorella e, pochi anni dopo, esattamente nel 1923, con la moglie sempre a fianco, aprì la sua “Fabbrica Acque gassose e Seltz” a Budrio, nella via del Macello Vecchio, l’attuale via Donati. Con la denominazione ‘acque gassose’, allora si intendevano, oltre all’acqua minerale, le bevande che contenevano anidride carbonica. Angelo inizialmente vendeva solo gazzosa e bottiglie di seltz in cristallo colorato, con la scritta Cesari incisa artigianalmente con acido fluoridrico; poi, dagli anni ’30, come tutti i gassosai, cominciò a vendere altre bibite acquistando gli sciroppi dai Ballandi di Baricella, progenitori del noto produttore televisivo, Bibi.
Più che di una vera e propria fabbrica, l’azienda di Cesari era un piccolo laboratorio dotato di un saturatore, cioè una macchina per produrre acqua gassata, due imbottigliatrici, una per il seltz e una per la gazzosa e un gasometro per abbassare la pressione delle bombole; la denominazione fu loro imposta dal registro delle imprese per via della produzione meccanizzata dell’attività, tipica del sistema di fabbrica, anche se i tempi di lavoro continuavano ad essere regolati dall’uomo. La fabbrica Cesari entrò quindi nel registro dell’industria e solo nel ’60, col cambiare della normativa, passò all’albo delle imprese artigiane.
Fare gli imprenditori, allora, era difficile quanto e più di oggi: erano necessari, per l’appunto, una certa inclinazione e spirito di iniziativa, un bel po’ di soldi da parte, che in genere si chiedevano in prestito a qualcuno di fiducia della famiglia per comprare il minimo indispensabile di attrezzatura; inoltre servivano coraggio, voglia di lavorare e, come in tutte le cose, un po’ di fortuna.
Il successo non fu affatto scontato – di gassosai a quel tempo, e fino agli anni ’30, solo a Bologna ne aprirono una quindicina e ben una trentina in tutta la provincia – ma Angelo Cesari fu guidato da una passione vera, genuina, che gli diede la forza di attraversare la terribile crisi del ’29. La stessa genuinità che mise nella ricetta, tanto semplice quanto ricca di accorgimenti ancora gelosamente conservati dagli eredi che la resero negli anni così apprezzata e tuttora inossidabile nella memoria dei budriesi.
GLI INGREDIENTI, POCHI MA BUONI
Acqua, zucchero, acido tartarico e aromi naturali. “Pochi, semplici, ma di qualità” – come racconta Vinicio Cesari, figlio di Angelo. Lo zucchero era prodotto dagli zuccherifici della zona – oggi hanno quasi tutti chiuso i battenti – quello “in balùt” (cioè in grani irregolari), che a Budrio si acquistava in tabaccheria dalla Lavrina. Quanto agli aromi naturali, essi consistevano nell’essenza di limone: qui Vinicio Cesari apre una lunga parentesi…
L’offerta era molto ampia, si andava dalle due alle 36mila lire il litro e Angelo puntò sulla qualità. Cominciò a girare alla ricerca di fornitori e giunse a Milano per comprare le essenze migliori e più raffinate, che avevano il pregio di durare almeno 15 mesi. Lo stesso farà in un secondo tempo Vinicio facendosi rifornire di campioni dai rappresentanti e testandone la durata nel tempo.
LA MAGIA DELLA BOTTIGLIA CON LA PALLINA
La prima produzione fu nella tipica “bottiglia con la pallina”, un brevetto inglese di fine Ottocento molto ingegnoso che sfruttava una biglia di vetro per sigillare ermeticamente la bibita, dopo averla imbottigliata con una particolare macchina, ancora oggi conservata da Vinicio Cesari. La “gassosa con la pallina” dalle nostre parti si chiamava rigorosamente “gazzosa”, con la doppia zeta. Il motivo probabilmente risale alla scritta “gaz” che recavano le bottigliette della ditta inglese fabbricante, e forse la “gazzosa” risentì di quell’anglismo. La bottiglia con la pallina spopolò in tutta Italia. In azienda la produzione giornaliera era di circa 400 bottiglie suddivise in due cicli, che si riponevano su un tavolo e si riempivano con mestolino e imbuto con circa 50 cc di sciroppo e 130 cc di acqua gassata. Poi, ad una ad una, si posizionavano nell’imbottigliatrice che, prima di concludere il suo ciclo, le capovolgeva a testa in giù iniettando il gas alla pressione di sei atmosfere – una bomba se fosse scoppiata! Poi, una volta riempita, la pallina di vetro in essa contenuta, come per magia, – in realtà per effetto della forza di gravità – cadeva verso il basso finendo a contatto con la guarnizione collocata nel collo della bottiglia e restava schiacciata verso l’alto dalla stessa pressione anche una volta raddrizzata la bottiglia.
Per aprirla poi era sufficiente esercitare una leggera pressione con il dito facendo fuoriuscire un po’ di gas e così la pallina scendeva per essere bloccata – altro ingegnoso particolare – da due scanalature nel vetro su un solo lato della bottiglia, consentendo l’impareggiabile e liberatoria bevuta “a collo”.
Era la bibita degli adulti perché rappresentava l’effimero con lo spettacolo delle bollicine, ed era anche la bibita dei piccoli, che avrebbero voluto rompere le bottiglie per recuperare la biglia all’interno e giocarci, ma c’era il “vuoto a rendere” con cui i gassosai riuscivano a garantire una efficiente rotazione ai baristi. Per la distribuzione, Angelo acquistò una nuova Fiat 501 per servire i bar di Budrio e frazioni, mentre i privati acquistavano direttamente in fabbrica. Ma inizialmente il giro d’affari non fu tale da giustificare un investimento così copioso, e di lì a poco la 501 fu venduta e sostituita con un più modesto triciclo a pedali.
I riconoscimenti non si fecero attendere e, nel ’26, Cesari partecipando ad una fiera internazionale a Fiume, si aggiudicò il diploma “medaglia d’oro della citta di Fiume” successivamente riconfermata, a “titolo reclamistico”, con l’iscrizione al “Libro d’oro d’Italia”, autorevole periodico “pro industria, commercio, arte e scienza d’Italia”.
Di lì in poi fu un crescendo…
Nel dopoguerra cominciò il tempo del misto di birra e gazzosa, che i francesi indicavano col termine “panaché”, mentre a Budrio si chiamava “manubrio” (forse perché il panaché, in ippica, è quando il cavallo si capovolge e per estensione si dice anche del ciclista che fa un capitombolo al di sopra del manubrio). Era divenuta una bibita alla moda, perché il dolce della gazzosa stemperava l’amarognolo della birra ed era molto apprezzata dai budriesi di entrambi i sessi, che spesso la preferivano alla gazzosa liscia.
Nel ’36 (con proroga fino al ’39), l’originale bottiglia fu messa al bando. Ufficialmente per motivi di igiene: la polvere che si accumulava sulla parte esterna della pallina cadeva con essa nella gassosa, un po’ come capita oggi con le attuali lattine per bibite. In realtà vi erano anche motivazioni di funzionalità: le bottiglie con la pallina erano troppo arzigogolate per essere lavate con efficienza dalle nuove macchine pulitrici industriali e richiedevano una pulizia manuale con apposito spazzolino, il solo in grado di raggiungere ogni anfratto.
Così la vecchia bottiglia andò in soffitta e fu soppiantata da un nuovo prototipo sempre in vetro molto spesso e di forma standardizzata, sigillata con gli attuali tappi a corona.
IL SUCCESSO DEGLI ANNI ’50
Vinicio, ormai ventiquattrenne, aiutava in azienda già da diversi anni e nel ’56, subentrò alla sorella Licia che, dopo il matrimonio, andò a vivere a Rimini, affiancando così il padre che accusava già problemi di età e di salute, insieme alla sorella maggiore Rina. Vinicio e Rina, giovani ragazzi di belle speranze, portarono all’azienda una ventata di modernità e ad un amico budriese che aveva frequentato il liceo artistico, tale Tommaso Colzani, chiesero di ideare il marchio, che poi accompagnerà l’azienda fino alla chiusura. Il marchio, inizialmente, fu stampato in serigrafia di colore giallo su nuove bottiglie di vetro, di stile lineare e nordico a doppio cono, secondo la moda del design del momento; in seguito, dato che la serigrafia, con i lavaggi sbiadiva, si decise di stamparlo in rilievo, che era anche più economico. Furono prodotte in un milione di pezzi e vennero acquistate nuove macchine imbottigliatrici. Si trattò di un bell’investimento perché le bottiglie erano costose, in quanto producevano molto scarto. Inoltre, si decise di mantenere invariata la ricetta della gazzosa e così la bibita, un po’ più cara rispetto ai marchi concorrenti, da prodotto povero quale era considerato, divenne la gazzosa dei ricchi e conquistò via via i bar più frequentati di Bologna: Zanarini, Canasta, Viscardi e i cinema del centro, oltre naturalmente ai bar di Budrio e a quelli delle frazioni per mezzo di Leopoldo Poggi, rivenditore e distributore di acque minerali e bibite.
Nel ’65, col vento in poppa, l’azienda si trasferì da via Donati a via Don Sturzo, e di lì a pochi anni arrivò il “vuoto a perdere”. Fu così che i Cesari procedettero al ritiro delle vecchie bottiglie fino ad esaurimento scorte e misero in produzione l’ultimo prototipo di bottiglietta da 200 cc, che le ultime generazioni di budriesi ancora ricordano, questa volta rivestita di un’elegante etichetta sulla quale il marchio venne stampato in giallo su fondo nero.
La gazzosa si continuò a vendere bene anche negli anni ’80, ma i tempi stavano lentamente cambiando. Le macchine erano sempre quelle del ’56: ogni tanto si rompevano e per ripararle si ricorreva agli amici; tra questi, qualche tornitore e meccanico che con un’aggiustatina garantiva l’immutabilità nel tempo della mitica gazzosa.
Ma il tempo trascorreva e il mercato stava mutando le regole del gioco.
In azienda i conti furono presto fatti. I profitti bastavano a malapena per il mantenimento familiare e si calcolò che per produrre 1000 bottiglie l’ora occorresse un organico di otto persone, contro le quattro all’attivo, mentre con le stesse otto persone le grandi catene industriali raggiungevano le sessanta mila bottiglie l’ora. Si trattava di decidere cosa fare e cioè se impegnare qualche miliardo per rinnovare gli impianti e proseguire o portare avanti l’azienda fino al raggiungimento del pensionamento di Vinicio, per poi chiudere. Andrea, l’ultimo erede dei Cesari, figlio di Vinicio, si era laureato in fisica e poi aveva intrapreso un lavoro che, con soddisfazione per i buoni risultati, lo aveva portato in giro per i cinque continenti allontanandolo dall’azienda di famiglia.
Questa ed altre ragioni – non ultima la convinzione di Vinicio che il livello qualitativo fosse ormai un’esigenza richiesta da un sempre minor numero di clienti sedotti dalla globalizzazione – portarono, nel 1997, alla chiusura dell’azienda, come accadde a tante altre imprese italiane, e all’epilogo di una lunga e affascinante pagina di storia locale.
Maurizia Martelli
Budrio Magazine Senza Confini
Visita il sito http://www.senzaconfinitaly.com/
Sono molto grato all’autrice dell’articolo per avermi riportato indietro di un cinquantina d’anni e avermi fatto ricordare il gusto impareggiabile delle gazzose dell’epoca. Chissà se qualcuno si ricorda che davanti alla “Lavrina” (a filo del portico) c’era anche, fino ai primi anni ’60 una pompa di benzina, probabilmente risalente ai tempi proprio della Fiat 501 🙂
Anch’io sono ritornato indietro di circa 50 anni, da studente liceale cui non era permesso di bighellonare per il paese in estate, e così dopo un paio di estati passate a raccogliere patate in ginocchio (troppo faticoso) o a cavare barbabietole con il rampino (che vesciche !) approdai all’industria, prima in uno scatolificio e l’anno dopo da Cesari in via Donati.
C’era da lavorare e anche molto, specie quando c’era da caricare o scaricare i camion, ma l’ambiente era buono. C’erano alcuni ragazzi fissi e io come ultimo arrivato, sono stato accolto con simpatia.
Il lavoro più duro era il lavaggio delle bottiglie, dove la macchina preposta utilizzava acqua ad alta temperatura e sembrava di essere in una sauna. Il più ambito era quello dell’imbottigliatrice perché si poteva stare a sedere, la macchina era un carosello che conteneva un certo numero di bottiglie, con la mano destra si toglieva la bottiglia piena e la si depositava nella cassa che andava alla tappatrice, contemporaneamente con la sinistra si prelevava una bottiglia vuota e la si metteva al posto della piena appena levata, il carosello girava e via così. Non ho mai bevuto tanta gazzosa come quell’anno !
Gran bella pagina.
Avrei continuato a leggere volentieri ancora e a lungo.
Grazie.
Complimenti, Mauri! Faccio diverse stampe dell’articolo per poterlo spedire ( ancora utile il vecchio “cartaceo”!) ai budriesi residenti altrove, a cui farà grande piacere, ne sono certa. Complimenti, ripeto, per la completezza e la precisione, ma soprattutto per…la tenerezza dei ricordi evocati.
Me la ricordo buonissima, ne compravamo scatole intere dalla mitica Floriana… Peccato davvero non poterla più sorseggiare. Le bibite simili che fanno ora (sprite in testa) non sono neanche lontanamente paragonabili…